Controvento: le aziende alla guida del Paese generano 101,3 miliardi di ricavi

È quanto emerge dalla quinta edizione dell’Osservatorio ‘Controvento: le aziende che guidano il Paese’, curato da Nomisma in collaborazione con CRIF e CRIBIS.
Le aziende Controvento rappresentano le eccellenze imprenditoriali del Paese. Complessivamente, generano il 9,4% dei ricavi, pari a 101,3 miliardi di euro, il 21,1% dell’EBITDA, e il 14,2% del valore aggiunto complessivo della manifattura italiana.

Questo gruppo di imprese, prevalentemente del settore manifatturiero italiano, è capace di crescere nonostante gli ostacoli. Si tratta di realtà che vantano performance altamente sopra la media, e si distinguono dalle altre per alcuni parametri particolarmente indicativi, come la crescita dei ricavi, la marginalità e la creazione di valore aggiunto.

Capaci di performance straordinarie anche durante la crisi

L’Osservatorio Controvento è nato con l’obiettivo di identificare le imprese manifatturiere nazionali capaci di performance straordinarie anche nell’attuale economia italiana dello ‘zero-virgola’. 
Negli ultimi 5 anni la quota di queste imprese oscilla tra il 6,5% e il 7,2%, con un ricambio annuo pari al 50% del totale. Si rileva quindi un fenomeno ricorrente che porta a pensare che la massa trainante sia rappresentata da questa quota.

Tra le imprese Controvento la classe dimensionale non sembra incidere sulla marginalità. Negli ultimi 5 anni le performance più positive riguardano maggiormente le micro e piccole imprese, con un EBITDA in crescita rispettivamente del +295% e del +234.

Tra il 2017-2022 ricavi cresciuti del 96%

Considerando i ricavi prodotti tra il 2017 e il 2022, quelli delle imprese Controvento sono cresciuti del 96%, mentre il resto delle imprese è complessivamente cresciuto del 39%.
Le imprese Controvento con oltre 500 dipendenti crescono in maniera più contenuta (+81% ricavi), mentre le grandi imprese mostrano performance migliori di tutti i cluster (+129%).

Inoltre, negli ultimi anni si osserva un allargamento del target di imprese Controvento verso il Sud, sebbene il Nord-Est riconfermi una maggiore predisposizione a ospitarle, con il Veneto l’unica regione entrata per 5 edizioni consecutive nel report sia per numero di imprese sia per ricavi prodotti.

I settori Controvento: packaging, cosmetica, metallo

Quanto ai settori produttivi, si possono individuare alcuni comparti che accentuano la propria rilevanza tra le imprese Controvento. Tra quelli vincenti, nei quali l’incidenza relativa delle variabili considerate (numero di imprese, ricavi, EBITDA, valore aggiunto) è sempre superiore alla media, si segnalano i comparti della cosmetica, della metallurgia e metallo, del legno e sughero, e la carta.

Prendendo in esame i soli ricavi, i settori che negli ulti 5 anni sono sempre rientrati in Controvento sono il packaging, la cosmetica, i minerali non metalliferi e il metallo.
Dall’altra parte, i settori mai entrati nel gruppo delle aziende con performance sopra la media vanno segnalati quelli alimentare, delle apparecchiature elettriche e della stampa.

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Dalla transizione verde 30 milioni di posti lavoro entro il 2030

La trasformazione verde delle aziende porterà a un aumento delle opportunità di impiego nell’ambito della sostenibilità, creando fino a 30 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo entro il 2030. Soltanto in Europa, oltre 1,7 milioni entro il 2040, grazie allo sviluppo di molecole verdi, come l’idrogeno e i biocarburanti, nell’ambito della transizione energetica.

Emerge dal report Building Competitive Advantage with A People-First Green Business Transformation, di ManpowerGroup, presentata al World Economic Forum di Davos.
Secondo il report, il 70% delle aziende di tutti i settori pianifica di assumere i cosiddetti ‘green jobs’. Soprattutto nei settori energia e servizi pubblici (81%), IT (77%) e servizi finanziari (75%).

Mancano le competenze

Tuttavia, la transizione richiederà la riqualificazione e l’aggiornamento del 60% dei professionisti per dotarli delle competenze necessarie a soddisfare la domanda verde. A livello globale, solo 1 lavoratore su 8 possiede più di una competenza ‘green’.

Se l’Italia è tra i Paesi che presentano maggiori carenze di competenze, il 94% dei datori di lavoro a livello globale riconosce di non avere in azienda i professionisti necessari per raggiungere gli obiettivi ESG, e il 75% ha difficoltà a trovare i talenti con le competenze ricercate.
Reperimento di candidati qualificati (44%), creazione di programmi di riqualificazione efficaci (39%) e identificazione di competenze trasferibili (36%) sono i principali ostacoli alla transizione verde.

Non tutti sono entusiasti del cambiamento

A livello settoriale si riscontrano differenze nell’entusiasmo verso la transizione verde. I lavoratori dei comparti IT (75%) e servizi finanziari/immobiliare (74%) sono i più pronti ad accogliere le prossime trasformazioni in ambito sostenibilità. Al contrario, i lavoratori dei settori energia e utility (64%) e trasporti, logistica e automotive (62%) sono meno ottimisti.

In generale, la maggior parte dei lavoratori è ottimista sulla transizione verde. Anche nel valutare un’opportunità di lavoro, le persone analizzano i progressi che le aziende hanno fatto in campo ambientale, più che le promesse.
Si tratta di un fatto positivo per i datori di lavoro che investono nella costruzione di modelli di business più sostenibili.

GenZ e Millennials i più ottimisti

Anche a livello generazionale si riscontrano discrepanze tra lavoratori.
Se infatti un terzo (32%) dei GenZ crede che i lavori verdi saranno contraddistinti da una retribuzione più elevata, solo il 14% dei Boomers condivide questo pensiero. Inoltre, il 75% degli appartenenti alla GenZ svolge ricerche sull’impegno delle aziende in ambito sostenibilità, e il 46% afferma che ciò influisce sulla probabilità di scegliere un determinato datore di lavoro.

Inoltre, per il 71% dei GenZ e il 60% dei Millennial le iniziative verso un mondo più sostenibile miglioreranno il loro lavoro, rispetto ad appena il 44% dei Boomers.
Le generazioni più giovani intravedono anche maggiori opportunità di sviluppo della propria carriera, riporta Italpress, con il 35% della Gen Z e il 34% dei Millennial che lo considerano uno dei principali vantaggi della transizione.

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Fatturazione elettronica: le novità del 2024

Lo scorso 31 dicembre è scaduto il regime transitorio previsto dal Decreto Legislativo 127/2015 che a determinate condizioni consentiva ai titolari di partita IVA di continuare a utilizzare le fatture cartacee, almeno per le transazioni tra privati.
L’obbligo di fatturazione elettronica è invecescattato subito per forfettari, minimi ed enti del terzo settore in regime forfettario, che emettono fatture alle Pubbliche amministrazioni.

Cosa è cambiato dal 1° gennaio 2024? La principale novità è l’estensione dell’obbligo di fatturazione tramite SDI anche a titolari di partita IVA in regime forfettario o appartenenti al vecchio regime dei minimi. Ma non è l’unica.

Rendere più facilmente tracciabili gli importi fatturati

In ogni caso, dal 1° gennaio 2024 chiunque emette fattura dovrà farlo in formato elettronico. Secondo le stime, mezzo milione di professionisti in più potrebbero trovarsi per la prima volta alle prese con la fatturazione elettronica.

La novità è intesa a semplificare numerose operazioni fiscali e soprattutto a rendere più facilmente tracciabili e conoscibili al fisco gli importi fatturati.
La conseguenza più rilevante è la maggiore probabilità di essere oggetto di accertamenti da parte dell’Agenzia delle Entrate su acquisti e forniture incongrue rispetto al volume di fatturato.

L’obbligo della conservazione a norma delle fatture

Ma non mancano conseguenze più pratiche: ci si deve infatti registrare sull’applicativo disponibile gratuitamente sul sito della stessa Agenzia che consente di emettere e conservare le proprie fatture.
Tra gli obblighi che derivano dalla fatturazione elettronica estesa anche a forfettari e minimi, di cui gli stessi potrebbero sottostimare l’importanza, c’è infatti anche quello della registrazione e conservazione a norma delle fatture elettroniche.

I migliori servizi di fatturazione elettronica si occupano anche di questo aspetto, ma per una maggiore sicurezza e per riuscire a conservare in un unico ‘luogo’ tutta la documentazione digitale della propria azienda si potrebbe optare per servizi ad hoc, come Doceasy.

Cambiano gli elenchi di controllo e le modalità per accedere al reverse change

Per tornare alle novità 2024 sulla fatturazione elettronica, quest’anno cambiano gli elenchi di controllo. In pratica, viene rifiutata la fattura elettronica se viene riscontrata l’invalidità della dichiarazione d’intento. Cambiano anche le modalità per accedere al regime del reverse change. Anche nel caso delle operazioni realizzate con l’estero, ma non correttamente assoggettate a tale regime, si potrà ricorrere al documento TD28.

Altre novità previste sono quelle che consentono agli operatori agricoli in regime speciale di gestire automaticamente le liquidazioni IVA, e soprattutto, l’applicazione delle regole tecniche previste in Europa per le fatture elettroniche verso le PA e capaci di garantirne la piena interoperabilità. 

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Agriturismo: dati e trend positivi di un settore di successo 

Se la forza trainante dell’agriturismo risiede nelle sue offerte economiche chiave, degustazione, alloggio e ristorazione, nel periodo 2004-2022 le aziende con servizio di degustazione hanno registrato un aumento annuo medio del 4,5%, evidenziando una connessione crescente con i prodotti DOP e IGP.
Allo stesso tempo, le aziende con alloggio e ristorazione hanno seguito con tassi medi annui rispettivamente del 3,4% e del 3,2%.

Secondo un report dell’Istat dedicato al settore agrituristico, in generale in Italia si è passati da poco più di 14mila aziende nel 2004 a 25.849 nel 2022, riflettendo un tasso di crescita medio annuo del 3,8%.
Una crescita distribuita in modo uniforme tra le diverse macro aree del Paese, con punte del 5,5% e 4,3% nel Nord-Ovest e nel Centro, e valori leggermente inferiori nel Sud, Isole, e Nord-Est. 

Quasi il 64% dei Comuni italiani è agrituristico

Sempre secondo l’Istat, oltre il 53% delle aziende agrituristiche si localizza nelle aree collinari, il 31% in quelle montane e il 16% in pianura.
Rispetto al 2004, il valore della produzione nel settore agrituristico è cresciuto al ritmo del 4,2% all’anno, triplicando la capacità produttiva in termini assoluti. Un risultato notevole, soprattutto se confrontato con il settore agricolo generale (+0,51%).

Anche sotto l’aspetto della diffusione territoriale i dati sono altrettanto impressionanti. Se nel 2004 i Comuni che ospitavano almeno un agriturismo (Comuni agrituristici) erano 3.352 in 18 anni se ne sono aggiunti 1.677, portando il totale a oltre 5.029, quasi il 64% dei Comuni italiani.

La nuova frontiera della multifunzionalità 

La trasformazione del settore è evidente nella proliferazione di aziende agrituristiche multifunzionali, caratterizzate dalla capacità di offrire almeno tre servizi distinti. 
Le aziende agrituristiche multifunzionali, che rappresentano il 28,2% di tutte le strutture attive, si presentano come un elemento consolidato e rilevante all’interno di questo settore in continua trasformazione.

Dal punto di vista geografico, il Centro si conferma come il luogo principale per la presenza di aziende multifunzionali, con il 28,1% del totale, seguito da Nord-Est (24,7%), Nord-Ovest (19,9%), Sud (16,3%) e Isole (11%).

Donne alla guida nel 34,1% dei casi 

La presenza femminile alla guida delle aziende agrituristiche è in costante aumento, con un totale di oltre 8.800 donne (34,1%) che gestiscono tali attività.
La maggior quota di conduttrici si concentra principalmente al Sud (46,6%), con valori che si avvicinano al 50% in Basilicata, Campania e Calabria.

Al Centro le donne alla guida sono il 36%, con Lazio e Umbria entrambi al 45%, mentre la Toscana registra una percentuale leggermente più bassa (31%). La quota di conduttrici è pressoché simile nelle Isole (36%) e nel Nord-ovest (36%), con la Liguria in testa al 50% di aziende guidate da donne.
L’indice di prevalenza di genere, che indica il rapporto tra aziende con conduttore e aziende con conduttrice, evidenzia una maggiore propensione all’imprenditoria femminile in Basilicata, Liguria e Campania. Al contrario, regioni come Trentino-Alto Adige/Südtirol, Piemonte e Friuli-Venezia Giulia mostrano un indice più basso.

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Elettricità, quanto mi costi! L’Italia al sesto posto tra i paesi dove è più cara 

In Italia, il costo dell’elettricità per cucinare con un forno elettrico si attesta a 77 euro all’anno, cifra che rappresenta un aumento del 42% rispetto alla Svezia, del 63% rispetto alla Francia e addirittura del 107% rispetto agli spagnoli. La disparità è attribuibile alle tariffe energetiche, con l’Italia posizionata al sesto posto tra i paesi dell’Unione Europea per costi dell’energia elettrica nel primo semestre dell’anno, con una media di 0,378€/kWh.
Insomma, nel Belpaese la bolletta pesa quasi quanto che in nazioni considerate “care” come i Paesi Bassi, il Belgio e la Germania.

Frigorifero, lavastoviglie, lavapiatti: quanto incidono sul budget familiare? 

L’analisi di Facile.it ha rivelato che, a causa di queste tariffe elevate, gli italiani spendono di più per l’uso di elettrodomestici rispetto ad altri paesi europei. Ad esempio, per lavare 220 carichi di biancheria all’anno, gli italiani devono mettere in conto circa 111 euro, mentre i francesi solo 68 euro e gli spagnoli 53 euro.
Pure l’utilizzo del frigorifero rappresenta un costo maggiore in Italia, con una spesa annua di circa 193 euro, rispetto ai 126 euro degli irlandesi e ai 93 euro degli spagnoli.
La situazione si riflette anche nell’uso della lavastoviglie, dove gli italiani spendono 92 euro all’anno, superati solo dai Paesi Bassi con 116 euro. Tuttavia, ci sono paesi come Grecia, Francia, Spagna e Ungheria dove la bolletta è notevolmente inferiore.

Anche guardare la TV ha un costo maggiore in Italia 

Inoltre, gesti quotidiani come guardare la televisione o asciugarsi i capelli hanno costi differenti da un paese all’altro. Ad esempio, i 49 euro spesi dagli italiani per quattro ore di televisione al giorno si riducono a 32 euro in Irlanda.
Anche l’uso di un phon per cinque minuti al giorno ha costi variabili, con 23 euro in Italia, 14 euro in Francia e 7 euro in Ungheria.

In Ungheria si spende meno di un terzo che in Italia

Facendo riferimento al consumo medio di una famiglia italiana (2.700 kWh), le bollette dell’energia elettrica potrebbero ammontare a circa 1.021 euro in Italia nel 2023. In confronto, paesi come Germania e Paesi Bassi avrebbero bollette più elevate, mentre in Svezia, Irlanda, Grecia, Francia, Portogallo e Spagna i costi sarebbero notevolmente inferiori.
L’Ungheria spicca per le tariffe estremamente basse, con una spesa annua di soli 313 euro per una famiglia con consumi equivalenti. Insomma, in Italia la bolletta per l’energia elettrica si rivela veramente “pesante”, anche in confronto ai vicini europei.

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Consumi: nel 2022 spesa in ripresa, ma ferma in termini reali

L’anno passato la spesa media mensile delle famiglie residenti in Italia è stimata dall’Istat in valori correnti a 2.625 euro, in aumento del +8,7% rispetto ai 2.415 euro del 2021.
Un incremento che però non corrisponde a un maggiore livello di spesa per consumi anche in termini reali.

Infatti, considerata la forte accelerazione dell’inflazione registrata nel 2022 (+8,7% la variazione dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo, IPCA), secondo l’Istat la spesa in termini reali sostanzialmente rimane inalterata.
Poiché la distribuzione dei consumi è asimmetrica, ed è più concentrata nei livelli medio-bassi della popolazione, la maggioranza delle famiglie spende un importo inferiore al valore medio.

Il 50% delle famiglie non ha speso più di 2.197 euro

Se si osserva il valore mediano, ovvero il livello di spesa per consumi che divide il numero di famiglie in due parti uguali, il 50% delle famiglie residenti in Italia ha speso nel 2022 una cifra non superiore a 2.197 euro (2.023 euro nel 2021).

Le famiglie hanno posto in essere strategie di risparmio per far fronte al forte aumento dei prezzi che ha caratterizzato il 2022, in parte grazie a quanto accumulato negli anni di crisi dovuta al Covid.
Nel 2020 e nel 2021, infatti, il tasso di risparmio lordo delle famiglie consumatrici è stato, rispettivamente, del 15,6% e del 13,2%, prima di ridiscendere ai livelli pre-Covid attestandosi attorno all’8%.

Vendita beni alimentari: aumenti in valore non in volume

In molti casi si è trattato anche di modificare le proprie scelte di acquisto, in particolare nel comparto alimentare. Il 29,5% delle famiglie intervistate nel 2022 dichiara, infatti, di aver provato a limitare, rispetto a un anno prima, la quantità e/o la qualità del cibo acquistato.

Un comportamento che trova conferma anche nei dati Istat sul commercio al dettaglio, che registrano in media, nel 2022, per la vendita di beni alimentari, un aumento tendenziale in valore (+4,6%), soprattutto nei discount, e una diminuzione in volume (-4,3%).

Cibi e bevande: prezzi a +9,3%

Più in dettaglio, nel 2022, a fronte del marcato incremento dei prezzi di beni alimentari e bevande analcoliche (+9,3% la variazione su base annua dell’IPCA), le spese delle famiglie per l’acquisto di questi prodotti sono cresciute del 3,3% rispetto all’anno precedente, pari a 482 euro mensili, il 18,4% della spesa totale.

Il 21,5% della spesa alimentare è destinato alla carne, il 15,7% a cereali e a prodotti a base di cereali, il 12,7% a ortaggi, tuberi e legumi, il 12,0% a latte, altri prodotti lattiero-caseari e uova, l’8,5% alla frutta e il 7,9% a pesce e frutti di mare.

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Grandi dimissioni e nomadismo digitale, perchè aumentano in Italia? 

Il mondo del lavoro non è più a misura di italiani. Lo rivela un recente studio condotto dall’Unicusano, che evidenzia come nell’ultimo anno ben il 90% degli italiani ha manifestato una profonda insoddisfazione per il proprio lavoro. Tanto che il 43% degli intervistati ha preso la decisione di abbandonarlo. Sorprendentemente, per il 97% di quanti hanno fatto questa scelta, non esisteva un “piano B”. La tendenza ha riguardato soprattutto le donne e i giovani sotto i 27 anni. Ben il 77% ha preferito rinunciare a contratti e carriere professionali a favore di una maggiore libertà personale.
Un altro dato allarmante emerso dallo studio dell’Unicusano riguarda il benessere psicoprofessionale dei lavoratori. Su 25 milioni di occupati nel 2022, in base ai dati Istat, solo l’11% è riuscito a raggiungere un equilibrio psicoprofessionale ideale. Si tratta di meno di tre milioni di persone.

Il principale accusato? Il burnout

Il principale fattore che ha gravato sulle spalle dei lavoratori, costringendoli a ripetute assenze, è stato il burnout, uno stato di esaurimento nervoso a livello fisico, mentale ed emotivo causato da diversi fattori legati al lavoro. Questo malessere ha colpito quasi il 50% degli italiani. Il fenomeno della “Great Resignation,” come è stato chiamato in America dopo la fine della pandemia, ha raggiunto anche l’Italia. Unicusano ha identificato diverse motivazioni alla base di questa tendenza, che vanno dall’insoddisfazione personale alla ricerca di condizioni economiche migliori, dalla desiderata flessibilità nell’organizzazione dell’orario di lavoro alla rottura dei rapporti interpersonali con i colleghi. In particolare, gli italiani stanno cercando un nuovo equilibrio tra vita privata e professionale, che oggi appare sbilanciato verso quest’ultima, a causa di una società che sembra essere diventata “iper-competitiva, iper-veloce e iper-digitalizzata”.

Quiet quitting e job creeper

In Italia, sono emersi anche altri fenomeni preoccupanti, come il “quiet quitting,” in cui oltre due milioni di lavoratori si limitano a svolgere il minimo indispensabile, non sentendosi valorizzati né emotivamente coinvolti nel loro lavoro. C’è anche il “job creeper,” che colpisce il 6% delle persone, le quali sono sopraffatte dal peso del lavoro fino al punto di fondere insieme sfera lavorativa e privata. A alimentare il fenomeno delle “Grandi Dimissioni” sono soprattutto i giovani tra i 24 e i 35 anni, noti come “flow generation.” 

I nomadi digitali

Questi giovani hanno un futuro incerto, sono lontani dal concetto di lavoro a tempo indeterminato e si dedicano a nuove professioni, con un’identità che muta in base alle sfide del futuro digitalizzato. Nati dalla crisi del 2008 e da un’economia basata sul consumo eccessivo, hanno abbracciato il nomadismo digitale come forma di espressione. Al giorno d’oggi, sono 35 milioni in tutto il mondo, con un valore economico di 787 miliardi di dollari. La pandemia ha tolto tempo, ma ha anche regalato tempo, e i nuovi nomadi digitali lo sanno bene. Questi individui hanno lottato negli ultimi tre anni per ottenere spazio e tempo per la loro vita, passioni, talenti, aspirazioni e affetti. Lavorano da remoto, ovunque nel mondo, e lo fanno con entusiasmo nell’85% dei casi. Rappresentano una risposta alla precarietà auto-imposta e una sfida che i reparti HR devono raccogliere per permettere a tutti di crescere, mettendo in primo piano ciò che davvero conta: le persone.

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Assegno Unico: cosa succede se non si presenta l’ISEE?

L’Assegno Universale Unico (AUU) è il contributo economico fornito dall’INPS a tutte le famiglie con figli a carico che riunisce e sostituisce i bonus di maternità e i bonus regionali precedentemente esistenti. Ma se per presentare la richiesta dell’Assegno Unico 2023 è necessario fornire in anticipo l’ISEE, è comunque possibile richiederlo anche in assenza dell’Indicatore della situazione economica e sociale. In tal caso l’importo sarà quello minimo, ovvero 50 euro mensili per ogni figlio minore a carico presente all’interno del nucleo familiare. L’assegno unico per i figli, in quanto di portata universale, è quindi riconosciuto anche a coloro che non dispongono di una dichiarazione ISEE, o che scelgono di non presentarla. 

Per chi non lo presenta l’importo è pari a un ISEE superiore a 40.000 euro

Nel caso l’ISEE non venga presentato, si avrà quindi sempre diritto all’Assegno, ma sarà pari all’importo dovuto relativamente a un ISEE superiore a 40.000 euro. Viceversa, chi ha un ISEE inferiore a 15.000 euro avrà diritto alla agevolazione più alta per ciascun figlio. Alcuni mesi fa, però, il Ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità ha dichiarato durante la presentazione della legge di Bilancio l’intenzione di rivedere il ‘fattore ISEE’ per determinare gli importi degli assegni unici e universali, legandoli al nuovo quoziente familiare.

Tutti gli aumenti in vigore dal 1° gennaio 2023

La legge di bilancio approvata nello scorso dicembre 2022, in vigore dal 1° gennaio 2023, ha introdotto alcune novità per l’Assegno Unico e Universale. Anzitutto, un aumento del 50% dell’assegno unico per le famiglie con figli di meno di un anno, un aumento del 50% dell’assegno unico per i figli con un’età compresa tra 1 e 3 anni, per nuclei familiari con almeno 3 figli e con ISEE fino a 40.000 euro. Inoltre, un aumento del 50% dell’assegno per le famiglie con 4 o più figli. La legge ha inoltre confermato gli aumenti già stati previsti nel 2022 per i figli disabili sopra i 18 anni senza che vi sia limite d’età.

L’assegno viene versato direttamente sul conto corrente del richiedente

In ogni caso, il processo di invio telematico AUU 2023 è attivo dal 1° marzo. L’assegno sarà versato direttamente sul conto corrente intestato al richiedente, come indicato durante la domanda. Il contributo viene elargito mensilmente e verrà accreditato entro 30 giorni dalla presentazione della domanda, seguito da un versamento mensile regolare. Nel caso di ritardi nel pagamento, eventuali somme arretrate saranno pagate in un’unica soluzione durante la prima mensilità disponibile.
Ma è necessario modificare la domanda di Assegno Unico già presentata per aggiornare il proprio ISEE? La risposta è negativa. È sufficiente compilare un modulo sul sito dell’INPS, o recarsi presso le sedi territoriali dell’INPS o un CAF convenzionato con l’INPS per ricevere assistenza gratuita.

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L’e-commerce aiuta le imprese e combatte l’inflazione

Grazie all’adozione del canale digitale le imprese italiane che vendono online registrano un incremento medio di fatturato (+8,8%), marginalità (+8,1%) ed export (+8,1%). Sono alcuni dati emersi dallo studio realizzato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con Amazon Italia.
“I maggiori benefici si riscontrano per le Pmi, con una quota maggiore di piccole e medie imprese che riporta un aumento del fatturato (+9,3%), della marginalità (+64%) e dell’export (+3%) rispetto alle grandi imprese”, commenta Lorenzo Tavazzi, Partner e Responsabile Area Scenari e Intelligence The European House – Ambrosetti.
Di fatto, se in Italia il commercio elettronico vale 48 miliardi di euro di transato, 71 miliardi di euro di fatturato, e conta 380mila occupati, l’e-commerce rappresenta anche, e soprattutto, una leva strategica di sviluppo per le imprese.

Per 7 imprese su 10 aumenta la brand awareness

“Chi vende online riconosce, inoltre, benefici anche sul canale fisico, riscontrando in particolare un aumento di brand awareness (7 imprese su 10), un’innovazione dell’offerta basata su esperienza multicanale e un miglioramento del servizio di post-vendita (6 su 10), oltre a un ampliamento della base di clientela nazionale ed estera (6 su 10)”, aggiunge Tavazzi.
Se tali effetti di sviluppo fossero applicati a tutte le imprese italiane il cui business è suscettibile di essere integrato con il canale digitale, potremmo avere un effetto volano per il sistema Paese di oltre 110 miliardi di euro (+6% del Pil al 2022). Rilevanti anche gli effetti pro-competitivi dell’e-commerce: per 7 imprese su 10 i canali di vendita online e offline sono complementari, con valori più elevati tra le Pmi (+10,3% rispetto la media delle altre imprese), determinando benefici in termini di brand awareness e miglioramento del servizio di post-vendita.

Export digitale: per 6 imprese su 10 incrementa la base clienti

Un ulteriore elemento di sviluppo è l’export digitale. Le imprese dichiarano un aumento delle esportazioni grazie all’adozione del canale online superiore all’8%, con 6 imprese su 10 che riportano anche un aumento della base clienti nazionale ed estera. Ma il commercio elettronico contribuisce anche al contenimento del carovita e al miglioramento dell’offerta retail. In un contesto in cui l’incremento dei prezzi è il problema maggiormente sentito dai cittadini, nell’ultimo anno l’e-commerce ha infatti permesso a 6 italiani su 10 di aumentare o mantenere invariato il proprio potere di acquisto.

Online i prezzi sono più stabili  

Il modello econometrico e statistico elaborato da The European House – Ambrosetti, confermato dal confronto con i dati Istat, mostra che in Italia i prezzi dei beni acquistati online si sono dimostrati più stabili del livello generale dei prezzi, con un effetto trascinamento sulla crescita dei prezzi generali.
Se non ci fosse stato l’effetto della diffusione dell’e-commerce negli ultimi 6 anni l’inflazione sarebbe stata in media il 5% più alta. Inoltre, al crescere del commercio online, anche i consumi crescono significativamente. Per ogni punto percentuale in più di diffusione dell’e-commere, i consumi in Italia aumentano di 845 milioni di euro.

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Italiani preoccupati per inflazione e aumento dei prezzi

L’inflazione continua a essere una delle principali preoccupazioni sia a livello globale sia in Italia. Secondo l’indagine “What Worries the World”, l’inflazione è il principale motivo di ansia in tutto il mondo per il 15° mese consecutivo, menzionata dal 40% degli intervistati. In Italia, il 30% del campione è preoccupato per l’inflazione e l’aumento dei prezzi, mentre percentuali simili temono la povertà e le disuguaglianze sociali (29%) e il cambiamento climatico (28%). Tuttavia, la principale preoccupazione in Italia è rappresentata dalla disoccupazione, citata dal 38% degli italiani.

Aumenta il pessimismo riguardo la condizione economica

Nel giugno del 2023, l’Osservatorio sull’Inflazione registra una crescita del pessimismo tra gli italiani riguardo alla propria condizione economica. Le spese energetiche hanno distolto risorse da altri tipi di acquisti, e gli aumenti dei prezzi stanno incidendo su quei consumi considerati “comprimibili”. Gli italiani non rinunciano completamente agli acquisti, ma piuttosto cercano di scendere a compromessi rispetto alle loro abitudini d’acquisto. Insomma, i nostri connazionali si stanno ingegnando a trovare soluzioni alternative per continuare a condurre la propria vita senza troppe privazioni.

Strategie di risparmio

Per mantenere inalterate le proprie scelte di consumo, i consumatori cercano principalmente promozioni e offerte, modificano i luoghi di acquisto e fanno scorta di prodotti. Le strategie adottate dai consumatori variano a seconda delle categorie di prodotto, quindi è essenziale per le aziende comprendere e monitorare queste dinamiche specifiche. Un aspetto rilevante è l’emergere dell’idea che gli aumenti dei prezzi possano essere speculativi, sia da parte delle aziende produttrici e fornitori di materie prime, sia da parte dei distributori. Questa percezione solleva interrogativi riguardo alle dinamiche di mercato e alle politiche dei prezzi adottate da diverse entità nel sistema economico.

Un pizzico di ottimismo

Nonostante le preoccupazioni riguardo all’inflazione, gli italiani mostrano un leggero ottimismo per il futuro. Si aspettano una stabilizzazione generale dei prezzi, ma temono aumenti per alcune categorie di prodotto specifiche, come carburanti e utenze. In sintesi, l’inflazione continua a essere una questione di grande rilievo per i cittadini sia in Italia che a livello internazionale. Gli italiani cercano di affrontare gli aumenti dei prezzi scendendo a compromessi e adottando strategie di consumo più oculate, ma rimane la preoccupazione riguardo a potenziali speculazioni da parte di alcuni attori del mercato.

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