Grandi dimissioni e nomadismo digitale, perchè aumentano in Italia? 

Il mondo del lavoro non è più a misura di italiani. Lo rivela un recente studio condotto dall’Unicusano, che evidenzia come nell’ultimo anno ben il 90% degli italiani ha manifestato una profonda insoddisfazione per il proprio lavoro. Tanto che il 43% degli intervistati ha preso la decisione di abbandonarlo. Sorprendentemente, per il 97% di quanti hanno fatto questa scelta, non esisteva un “piano B”. La tendenza ha riguardato soprattutto le donne e i giovani sotto i 27 anni. Ben il 77% ha preferito rinunciare a contratti e carriere professionali a favore di una maggiore libertà personale.
Un altro dato allarmante emerso dallo studio dell’Unicusano riguarda il benessere psicoprofessionale dei lavoratori. Su 25 milioni di occupati nel 2022, in base ai dati Istat, solo l’11% è riuscito a raggiungere un equilibrio psicoprofessionale ideale. Si tratta di meno di tre milioni di persone.

Il principale accusato? Il burnout

Il principale fattore che ha gravato sulle spalle dei lavoratori, costringendoli a ripetute assenze, è stato il burnout, uno stato di esaurimento nervoso a livello fisico, mentale ed emotivo causato da diversi fattori legati al lavoro. Questo malessere ha colpito quasi il 50% degli italiani. Il fenomeno della “Great Resignation,” come è stato chiamato in America dopo la fine della pandemia, ha raggiunto anche l’Italia. Unicusano ha identificato diverse motivazioni alla base di questa tendenza, che vanno dall’insoddisfazione personale alla ricerca di condizioni economiche migliori, dalla desiderata flessibilità nell’organizzazione dell’orario di lavoro alla rottura dei rapporti interpersonali con i colleghi. In particolare, gli italiani stanno cercando un nuovo equilibrio tra vita privata e professionale, che oggi appare sbilanciato verso quest’ultima, a causa di una società che sembra essere diventata “iper-competitiva, iper-veloce e iper-digitalizzata”.

Quiet quitting e job creeper

In Italia, sono emersi anche altri fenomeni preoccupanti, come il “quiet quitting,” in cui oltre due milioni di lavoratori si limitano a svolgere il minimo indispensabile, non sentendosi valorizzati né emotivamente coinvolti nel loro lavoro. C’è anche il “job creeper,” che colpisce il 6% delle persone, le quali sono sopraffatte dal peso del lavoro fino al punto di fondere insieme sfera lavorativa e privata. A alimentare il fenomeno delle “Grandi Dimissioni” sono soprattutto i giovani tra i 24 e i 35 anni, noti come “flow generation.” 

I nomadi digitali

Questi giovani hanno un futuro incerto, sono lontani dal concetto di lavoro a tempo indeterminato e si dedicano a nuove professioni, con un’identità che muta in base alle sfide del futuro digitalizzato. Nati dalla crisi del 2008 e da un’economia basata sul consumo eccessivo, hanno abbracciato il nomadismo digitale come forma di espressione. Al giorno d’oggi, sono 35 milioni in tutto il mondo, con un valore economico di 787 miliardi di dollari. La pandemia ha tolto tempo, ma ha anche regalato tempo, e i nuovi nomadi digitali lo sanno bene. Questi individui hanno lottato negli ultimi tre anni per ottenere spazio e tempo per la loro vita, passioni, talenti, aspirazioni e affetti. Lavorano da remoto, ovunque nel mondo, e lo fanno con entusiasmo nell’85% dei casi. Rappresentano una risposta alla precarietà auto-imposta e una sfida che i reparti HR devono raccogliere per permettere a tutti di crescere, mettendo in primo piano ciò che davvero conta: le persone.

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